Quante volte siamo costretti ad ascoltare che le denunce di donne vittime di violenza sono rimaste impunite o che nei confronti dei responsabili sono state emesse condanne minime, insufficienti a risarcire sia materialmente che moralmente le vittime?
Certo, è essenziale che nei casi di violenza vi sia in primis un intervento tempestivo da parte delle Forze dell’Ordine e dei magistrati per ottenere dei risultati, ma non basta, serve di più.
Questo è ciò che emerge dalla lettura della sentenza 20355/2018 con la quale la Corte di Cassazione ha confermato le sanzioni disposte dalla commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti di un sostituto procuratore, reo di non aver fatto il possibile affinché un uomo, autore di tre aggressioni in soli quattro mesi ai danni della compagna alla fine uccisa, fosse rinchiuso in carcere invece di rimanere agli arresti domiciliari.
E’ legittimo chiedersi allora se sia sufficiente che un PM si limiti ad applicare formalmente la legge o, in situazioni gravi quali la violenza sulle donne, nei maltrattamenti, nello stalking, possa osare adottando, o chiedendo ad altri di adottare, misure più consone alla pericolosità della situazione, in questo caso il carcere.
In particolar modo nei processi per i reati di violenza il processo stesso assume anche un valore simbolico: il riconoscimento istituzionale del dolore provato.
Ottenerlo spesso aiuta la donna ad uscire dalla spirale della violenza.